mercoledì 2 luglio 2014

MORIRE PER UN AUTOGOL: IL RICORDO DI ANDRES ESCOBAR

Immagine tratta da eatsport.net
"La vita non termina qui." Stride terribilmente pensare che l'autore di questa frase, un ragazzo di ventisette anni, fu brutalmente assassinato solo qualche giorno dopo. Ucciso per uno sfortunato incidente sportivo, un autogol, un errore che capita a molti, ma che a lui non fu mai perdonato. Il ragazzo in questione si chiamava Andres Escobar, era un difensore della Colombia dei primi anni Novanta, ed è il tragico protagonista di questa vicenda che unisce tristemente sport e criminalità.
Giocatore talentuoso e molto corretto, apprezzato in campo per l'abilità e la precisione dei suoi interventi, oltre che per una signorilità non comune, Andres era nato nella periferia di Medellin, capitale della Colombia, e aveva costruito un'intera carriera con la maglia della formazione locale, l'Atletico National. Con lui in campo, il genio e l'estro di Higuita in porta e la sapienza di Maturana in panchina, i colombiani riuscirono lentamente ad emergere dall'anonimato, imponendosi nel grande calcio mondiale. Vincitori della Copa Libertadores 1989, misero severamente in difficoltà il grande Milan di Arrigo Sacchi, che li sconfisse solo all'ultimo minuto durante la Coppa Intercontinentale. Insieme ad altri campioni nascenti come Valencia, Asprilla, Rincon, ed esperti come il capitano e leader Valderrama, questi giocatori formarono l'ossatura della squadra nazionale, che il maestro Maturana portò ad emergere con una serie di grandi risultati, su tutti il sonante 5-0 conquistato in casa dell'Argentina orfana di Maradona durante le qualificazioni ai Mondiali del 1994.
Ma dietro il calcio si nascondeva un'altra, cupa realtà che stendeva un'ombra nera e oscura sulla Colombia. Lo sport era strettamente, inesorabilmente connesso con personaggi scomodi e poco raccomandabili: i boss della malavita locale, signori del commercio internazionale della droga, e mandanti di centinaia di omicidi e atti di violenza. Il leader indiscusso dei narcotrafficanti, Pablo Escobar, dominò per anni la scena sociale e politica della Colombia, e investì molti soldi nella crescita del club per cui tifava, appunto l'Atletico National de Medellin, e dello sport in genere. Proprio l'uccisione di Pablo e la feroce guerriglia che ne seguì gettarono nel caos il Paese, e se molti colombiani vedevano nella Nazionale e nel calcio uno sfogo per distogliere momentaneamente la mente dalle preoccupazioni, i nuovi signori della droga pensarono di sfruttarlo per ottenere molti soldi, e investirono ingenti somme di denaro nelle scommesse clandestine.
La Nazionale non riuscì a rimanere indifferente a quello che accadeva in casa, e le pressioni degli esperti che la ritenevano una sicura protagonista del Mondiale 1994 aumentarono ulteriormente la tensione. Nella prima partita del torneo, i "cafeteros" furono nettamente sconfitti dalla Romania, e si trovarono subito di fronte ad un terribile bivio: un mancato successo contro gli Stati Uniti, padroni di casa, avrebbe voluto dire quasi sicuramente addio al Mondiale, e chissà cos'avrebbe scatenato in patria. La vigilia del match fu terribile, le minacce di morte dei narcos costrinsero un distrutto Maturana a rimandare a casa un suo giocatore, Gomez, perché ritenuto responsabile della sconfitta, e quando le squadre scesero in campo la tensione era alle stelle. Alla mezz'ora del primo tempo, avvenne l'irreparabile: cross in mezzo all'area, un difensore intervenne maldestramente per allontanare il pericolo e finì invece per mandare la palla nella propria porta. Autore della sfortunata autorete, proprio Andres Escobar, il leader della difesa, il Caballero del Futbol, uno dei beniamini del popolo colombiano, desiderato da molte squadre europee. Gli americani vinsero 2-1, la Colombia tornò mestamente a casa, e la tragedia personale di Escobar, responsabile idealmente per i tanti soldi persi dagli scommettitori, si compì pochi giorni dopo, fuori da una discoteca. Qualche insulto contro di lui, una lite con alcune persone, e un'ex guardia del corpo lo freddò a colpi di mitra, ad appena ventisette anni, "ringraziandolo" per l'autogol. La mano della malavita era evidente, ma l'assassino fu l'unico ad essere incolpato dell'accaduto, e la sua pena fu anche ridotta per buona condotta.
Non solo il popolo colombiano, ma tutto il mondo, non solo quello sportivo, furono tremendamente scossi da questa tragedia, che con lo sport non aveva proprio nulla a che fare. La morte di Escobar chiuse idealmente il periodo d'oro della Nazionale colombiana, capace di tornare grande solo negli anni recenti, e spinse finalmente la federazione a prendere provvedimenti per "ripulire" la sua immagine e distaccarsi definitivamente dall'ombra del narcotraffico e del denaro sporco. Il suo fu quasi un sacrificio necessario per dare inizio al cambiamento, per anni la sua maglia col numero 2 fu considerata un peso eccessivo da portare per i colombiani, e solo un campione come Ivan Ramiro Cordoba è riuscito a vestirla e onorarla a lungo in campo. Oggi, a vent'anni dalla sua morte, rimane vivissimo il ricordo di un gran giocatore, un esempio di classe e sportività, e soprattutto il senso di impotenza davanti all'immeritata e ignobile fine di un ragazzo innocente, morto per un maledetto autogol.

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